Ti sei mai chiestə almeno una volta nella vita se sei statə un amicə, un dipendente, un partner o un genitore abbastanza bravo? Oppure ancora magari ti sei ritrovatə a pensare o constatare se fossi abbastanza magrə, attraente, intelligente e simpaticə? Se hai mai avuto anche solo un piccolo dubbio su te stessə, sappi che sei in buona compagnia, che non sei solə e soprattutto che non c'è qualcosa che non va.
Lo psicologo clinico Ronald D. Siegel scrive qualcosa di molto importante maturata nei suoi quasi 40 anni di carriera:
"Ho notato che c'era una lotta dolorosa che quasi tutti sembravano condividere: l'incessante ricerca di sentirsi meglio con se stessi". (The Extraordinary Gift of Being Ordinary)
La maggior parte di noi trascorre le giornate con pensieri auto-valutativi che popolano ogni angolo del cervello: preoccupazioni per le nostre prestazioni sul lavoro, delusione per ciò che vediamo allo specchio, giudizi sulla nostra amabilità, basati sull'ultima conversazione che abbiamo avuto. Anche quando ci sentiamo bene con noi stessi, questa sensazione può essere labile e pronta a essere infranta dall' ennesimo colpo alla nostra immagine interiore profonda e personale.
Questa "vocina" che ben conosciamo e che magari ci accompagna sin da quando siamo piccoli, anche se non ha il pieno controllo di tutte le nostre facoltà (magari solo in casi estremamente disequilibrati e rari), insinua il dubbio in noi e non ci permette di essere mai pienamente tranquilli ed in equilibrio con noi stessi: anche se magari solo per pochi minuti.
Invece di questo "chiacchiericcio autoreferenziale", Siegel suggerisce un altro modo di esprimere se stessi, basato sulla connessione con gli altri piuttosto che sulla dimostrazione di noi stessi. Il suo libro offre suggerimenti per gestire la sensazione di "non essere all'altezza" e costruire un senso di felicità stabile.
Perché il giudizio costante di se stessi e l'autovalutazione posso danneggiare molto il proprio interiore
Anche se valutare costantemente il nostro valore è estenuante, è sicuramente una pratica che appartiene molto frequentemente al genere umano.
"La propensione a valutarci e a confrontarci con gli altri, che un tempo era utile per la sopravvivenza, è in realtà radicata nel cervello umano", scrive Siegel.
Per vincere la gara evolutiva e riprodursi, i primi esseri umani dovevano competere con gli altri per lo status, quindi il confronto con gli altri, oggi uno sfortunato effetto collaterale dei social media, un tempo era un'abilità di sopravvivenza. L'esilio dalla tribù era una questione di vita o di morte, quindi il timore di essere rifiutati permane ancora oggi, nonostante le nostre tribù siano decisamente cambiate in modi che nemmeno avremmo potuto immaginare.
Oggi, la preoccupazione per la nostra adeguatezza può assumere forme diverse in ogni persona.
In risposta ai sentimenti soggettivi per i quali desideriamo essere adeguati, cerchiamo di fare tutto il possibile per dimostrare a noi stessi e agli altri che possiamo essere effettivamente queste cose: buoni, generosi, forti, di successo, sexy. Ma neanche questo funziona nel profondo se siamo realmente onesti nei confronti di noi stessi.
"In realtà è l'incessante tentativo di sentirci bene con noi stessi a causare gran parte del nostro disagio", scrive Siegel.
La ricerca suggerisce che le persone che perseguono ricompense esterne come la fama, il potere, la ricchezza e la bellezza per essere popolari sono più ansiose, depresse e scontente rispetto a quelle che si concentrano sulla crescita personale, sulle relazioni e sull'aiuto agli altri. Quando i nostri obiettivi sono così esterni rispetto al nostro centro, possiamo trovarci in una condizione di "difetto costante". Ci saranno per questo sempre persone che faranno meglio, o si troveranno comunque in una posizione migliore della nostra, quindi ci sentiremo costantemente giudicati. Ma non contenti, e soprattutto essendo inconsapevoli di questo circolo vizioso nel quale siamo finiti, qualora dovessimo riuscire a raggiungere uno degli obiettivi prefissati (lavorativamente, accademicamente, sentimentalmente e così via) saremmo portati ad alzare nuovamente l'asticella, orientandoci subito verso un obiettivo più grande o più complicato o comunque di difficile realizzazione.
Sono già stanca a parlarne!!! Voi no?
Sempre impegnati nelle prestazioni, raramente ci concediamo una pausa per sentirci soddisfatti o in pace. La preoccupazione di essere abbastanza bravi può anche ostacolare il contatto con gli altri. Quando percepiamo qualsiasi tipo di critica da parte di amici o colleghi, possiamo sentirci minacciati e metterci sulla difensiva. Se è vero che la miglior difesa è l'attacco è necessario considerare come in molti altri casi l'abitudine all'auto-giudizio possa sfociare nel giudicare duramente gli altri. Sentendoci costantemente giudicati sarà più difficile mettersi in gioco e a sua volta riuscire a sovvertire la spirale privativa in cui ci si trova. Nel corso degli anni, scrive Siegel, tutte le volte in cui non ci siamo sentiti all'altezza diventano una "riserva di tristezza, dolore e vergogna accumulata" che può essere innescata da ciò che accade nella nostra vita quotidiana. Questo peso, dico io, è difficile da portare per chiunque.
Come fare per sentirsi bene con se stessi
Invece di cercare di fare di più per sentirci finalmente degni, la soluzione sta nello spostare completamente l'attenzione da sé, agli altri.
Ciò significa:
costruire le nostre relazioni;
praticare abilità come la compassione, la gratitudine e il perdono.
In ogni interazione ciò significa concentrarsi sulla connessione piuttosto che sull'impressione.
È anche possibile affrontare direttamente i sentimenti di vergogna. Come ha sottolineato la ricercatrice Brené Brown, la vergogna prospera nella segretezza, ed è proprio per questo che diventa estremamente utile incoraggiare le persone a condividere i propri sentimenti di inadeguatezza con gli altri e con il mondo che li circonda. Il più delle volte si scoprirà che non si è soli e che tutti abbiamo aspetti di noi stessi di cui non andiamo fieri. Suggerisce anche di avere un dialogo con il proprio giudice interiore, chiedendogli: "Cosa temi che succeda se non fai un buon lavoro nel criticarmi?".
Per poi successivamente rivolgersi alle parti ferite e insicure di voi chiedendo: "Di cosa potreste avere bisogno in questo momento?".
L'obiettivo è sviluppare "l'accettazione incondizionata di sé", un atteggiamento simile a quello che si ottiene da un buon genitore: "Ti amerò a prescindere, comunque tu sia". Ciò non significa che non ci si debba attenere a determinati standard o che non ci si senta delusi quando non si riesce a raggiungerli, ma i nostri errori non danneggiano in alcun modo il nostro valore come esseri umani completi.
Un modo per avvicinarsi a questo tipo di accettazione di sé è accorgersi che i propri standard di autostima potrebbero non essere quelli che si sono scelti fin dall'inizio; è possibile che ci si sia inconsapevolmente allontanati dai propri valori fondamentali man mano che ci si muoveva nel mondo e si era esposti alle opinioni degli altri. Per esempio, cosa pensate che renda una persona buona e degna, e da dove provengono queste convinzioni? Quali sono le regole arbitrarie che vi aspettate di seguire?
Come viene suggerito anche in terapie cognitivo-comportamentali, è utile provare a essere imperfetti di proposito: sbagliare un'uscita in autostrada, cantare in pubblico come si fosse da soli, non vestirsi in modo adeguato per uscire di casa ed andare ad un incontro a cui teniamo, falciare solo metà del nostro prato e così via.
Un senso di connessione con l'intera umanità e con gli esseri di ogni luogo è ciò che più ci aiuterà a superare i nostri dubbi su noi stessi. Ci accorgeremo che ognuno di noi sta provando a trovare un equilibrio proprio in questo viaggio finito attraverso la vita e che, nel bene o nel male, non ci sono criteri univoci ed universali a cui appellarsi per fare "bene o male" una cosa, ma solo punti di vista.
Commentaires